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La donna di nessuno - 2009.avi

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Czas trwania: 95 min

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La donna di nessuno - 2009

Un film di Vincenzo Marano. Con Laurent Lucas, Hélène De Fougerolles, Thierry Frémont, Anna Galiena, Candice Hugo.
Drammatico, durata 99 min. - Italia 2009. - FilmExport uscita venerdì 26 giugno 2009.

Una giovane prostituta, testimone chiave al processo contro una maitresse senza scrupoli, muore precipitando dalla finestra di un albergo. Sulla sua morte indagano una giornalista impicciona e il commissario Gallager, fratello scontroso del celebre Martin Delvaux. Delvaux è un giudice ambizioso, sposato a una donna ricca e matura e amante occasionale della bella Sarah, prostituta di lusso che lo ama disinteressatamente. Coinvolti loro malgrado e con responsabilità diverse nel caso di omicidio, la giornalista, il giudice e la prostituta finiranno per incontrarsi e per farsi molto male.
L'opera prima di Vincenzo Marano, autore italiano trapiantato in Francia, non è un vero melodramma o almeno non lo è nei termini codificati del genere. Vi emerge tuttavia una progressione di tono che fa slittare il giallo-nero del film nella direzione, appunto, del melodramma. Sullo sfondo di una Parigi implicita e al centro di un film decisamente e formalmente francese, abitano i vertici di un triangolo amoroso: lui, lei e, sempre, l'altra.
Sarah è la donna del titolo, è di tutti e non è mai di nessuno, appartiene a se stessa, anche se vorrebbe tanto appartenere a Delvaux, e conclude la sua vita in perenne bilico con il più melodrammatico dei suicidi. Jeanne è una giornalista rigorosa mai obliqua, mai malvagia, mai pericolosa, è diretta, onesta e innamorata, anche lei, dell'ambiguo giudice. Martin Delvaux è l'uomo di potere, è l'uomo condiviso, divorato dall'amore per Jeanne e ossessionato da Sarah, urgenza improvvisa da consumare come un capriccio. L'uomo è prima dell'una e poi dell'altra, poi ancora di una e di nuovo dell'altra, in una gioco crudele vissuto in nome dell'amore e del diritto (del più forte).
Giocare con la sostanza della vita, ci dice il regista, equivale a giocare col suo opposto, l'ineluttabilità della morte. Nel melodramma, Marano, insinua una vicenda criminale, declinando al maschile e al noir il suo woman's film. E proprio lungo la frontiera tra noir e mélo femminile si colloca il debutto cinematografico di Marano (regista di numerose serie tv), che ha avuto un discreto successo in Francia e adesso trova una distribuzione nelle sale italiane. Il suo è uno sguardo elegante, un richiamo stilistico alle cinematografie di genere, attratto dalla sospensione inquieta dei primi piani ma ancora troppo (ben) confezionato e anonimo.
Un prodotto statico che sacrifica sfondo, motivazioni e sviluppi dei personaggi e delle situazioni. Il risultato è che molti passaggi narrativi risultano frettolosi (l'innamoramento Martin-Jeanne) e il film non restituisce le conseguenze morali che promette. Il regista romano riesce però a valorizzare il naturale istinto dei suoi attori e questa, comunque la si veda, è una (prima e buona) prova di regia.

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obrazekobrazekobrazekobrazekobrazek(2,58 mymovies.it) ...Ecco allora che chi ha amato la materialità polverosa de La terra può non apprezzare la 'finzione' di un film che si conclude in un teatro antico dopo aver inanellato, specialmente nella seconda parte, una serie di colpi di scena a volte prevedibili. Ma proprio lì sta il gioco della finzione a cui gioca Rubini/Lulli. In quella sagoma che chiude il film troviamo la definizione quasi geometrica di ciò che nell'opera precedente si traduceva in frantumazione di un nucleo sociale. Rubini, che lo voglia o no, è intervenuto consapevolmente su un tema che il cinema italiano o ha trascurato o ha trattato come punto di partenza per altri percorsi (penso ad esempio al quadro di Le fate ignoranti). Il rapporto tra il critico d'arte e l'artista è inevitabilmente un gioco di sovrapposizioni in cui ognuno inizialmente 'finge'. Il secondo simula di poter essere autonomo, il primo di elargire la propria benevolenza pigmalionica. Ma è su questa duplice finzione che Rubini lavora (narrativamente complice una Vittoria Puccini il cui nudo integrale, liberato dalle catene da atelier della Béart de La bella scontrosa, fa pensare a una pre-scultura da catturare come immagine non definitiva). Consapevole però di offrire al contempo una verità. In particolare quella di un rapporto di dominio in cui chi possiede le leve del potere mediatico può elevare o abbattere a proprio piacimento. La scena al ristorante in cui Scala deve decidere se farsi ammettere definitivamente a corte oppure riacquisire la propria dignità è carica di una tensione tangibile. È come se in quel momento tutta la fisicità dell'opera dello scultore dovesse trasformarsi nelle parole che il critico sa manipolare così bene nonostante la sua sterilità (anche riproduttiva). Da quella scelta dipendono gli sviluppi di una vicenda in cui la decisione di andare talvolta narrativamente sopra le righe non è accidentale ma voluta. È come se l'impronta sulla sfera (fondamentale la collaborazione di Gianni Dessì) divenisse quasi un logo del film: il coraggio di imprimere un segno indipendentemente dalla lettura e dall'uso che altri potranno farne. Il cinema è anche questo e ben vengano (in Italia) i registi che ancora se lo ricordano.
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