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Gomorra CD2.avi

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Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che indossano i giubbotti antiproiettile, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l'adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c’è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall'altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s'è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, passare come fa Pasquale dalla confezione di abiti d'alta moda in una fabbrica in nero a guidare i camion della camorra in giro per l'Italia, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c’è niente da fare.
Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all'inferno. Che non si trova nel centro della terra, ma solo pochi metri giù dalla statale o sotto la coltivazione delle pesche che mangiamo tutti, nutrite di scorie letali, trasformate in bombe che seminano tumori con la compiacenza dei rispettabili industriali del nord.
Nessun barlume di bellezza dentro questo buio fitto sotto il sole; forse la bellezza è nata qui, per caso o per errore, ma è volata lontano, addosso a Scarlett Johansson, col risultato che chi l'ha partorita è rimasto ancora più solo ed impotente.
Il film di Garrone è crudo e angosciante, ripreso dal vero, musicato dal suono delle grida e degli spari di Scampia. Una volta si diceva "giusto", quando dire "bello" non aveva senso. Giustissimo, dunque.
Del libro, il film sceglie alcuni fili, li intreccia, s'impone come uno sciroppo avvelenato, senza la possibilità di voltar pagina o sospendere la lettura. Del libro, soprattutto, sposa il punto di vista, da dentro, e tuttavia inevitabilmente fuori, in salvo. "Ma - scrive Saviano - osservare il buco, tenerlo davanti insomma, dà una sensazione strana. Una pesantezza ansiosa. Come avere la verità sullo stomaco". Gomorra, sullo stomaco, pesa come un macigno. Solo una ruspa potrebbe sollevarlo, per "sversarlo" altrove e chiudere in circolo vizioso, come il suono del film.

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Colpo docchio - 2008 - CD2.avi play
(2,58 mymovies.it) ...Ecco allora che chi ha amato ...
obrazekobrazekobrazekobrazekobrazek(2,58 mymovies.it) ...Ecco allora che chi ha amato la materialità polverosa de La terra può non apprezzare la 'finzione' di un film che si conclude in un teatro antico dopo aver inanellato, specialmente nella seconda parte, una serie di colpi di scena a volte prevedibili. Ma proprio lì sta il gioco della finzione a cui gioca Rubini/Lulli. In quella sagoma che chiude il film troviamo la definizione quasi geometrica di ciò che nell'opera precedente si traduceva in frantumazione di un nucleo sociale. Rubini, che lo voglia o no, è intervenuto consapevolmente su un tema che il cinema italiano o ha trascurato o ha trattato come punto di partenza per altri percorsi (penso ad esempio al quadro di Le fate ignoranti). Il rapporto tra il critico d'arte e l'artista è inevitabilmente un gioco di sovrapposizioni in cui ognuno inizialmente 'finge'. Il secondo simula di poter essere autonomo, il primo di elargire la propria benevolenza pigmalionica. Ma è su questa duplice finzione che Rubini lavora (narrativamente complice una Vittoria Puccini il cui nudo integrale, liberato dalle catene da atelier della Béart de La bella scontrosa, fa pensare a una pre-scultura da catturare come immagine non definitiva). Consapevole però di offrire al contempo una verità. In particolare quella di un rapporto di dominio in cui chi possiede le leve del potere mediatico può elevare o abbattere a proprio piacimento. La scena al ristorante in cui Scala deve decidere se farsi ammettere definitivamente a corte oppure riacquisire la propria dignità è carica di una tensione tangibile. È come se in quel momento tutta la fisicità dell'opera dello scultore dovesse trasformarsi nelle parole che il critico sa manipolare così bene nonostante la sua sterilità (anche riproduttiva). Da quella scelta dipendono gli sviluppi di una vicenda in cui la decisione di andare talvolta narrativamente sopra le righe non è accidentale ma voluta. È come se l'impronta sulla sfera (fondamentale la collaborazione di Gianni Dessì) divenisse quasi un logo del film: il coraggio di imprimere un segno indipendentemente dalla lettura e dall'uso che altri potranno farne. Il cinema è anche questo e ben vengano (in Italia) i registi che ancora se lo ricordano.
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